Lungo il sentiero #20
Non vi è alcun dubbio che una malga senza vacche e manze che pascolano appaia più povera e triste; ricordo un’escursione ad Erera in un’estate nella quale non erano saliti i bovini, e quel magnifico scenario difettava di qualcosa ai miei occhi. È una questione sonora, visiva, forse pure paesaggistica, localmente olfattiva, ma che va a toccare anche altre corde del nostro sentire, che competono alla sfera culturale, antropologica e affettiva, quanto meno nella gente di montagna.
Bene dunque ha fatto il Parco a suo tempo a cercare di creare le condizioni affinché pascoli che si possono definire decisamente “estremi”, come quelli della zona di Erera-Brendol e della Busa delle Vette, potessero continuare a vivere; senza parole lasciano d’altronde l’impegno e la dedizione degli allevatori, che in queste aree investono passione, competenze, amore per gli animali e per il territorio: all’azzeccato neologismo “viticoltura eroica” mi si permetta di associare quello di “alpeggio eroico”.
Ricordo, ai tempi della stesura del primo piano ambientale del Parco, con quali parole il Professor Viola, docente di ecologia all’Università di Padova, argomentava l’importanza del pascolo, in taluni contesti, per mantenere elevati i livelli di biodiversità. Un approccio innovativo, che ha permesso di inserire in ambiti di “Riserva naturale” porzioni di territorio interessate da attività proprie delle zone cosiddette “Agro silvo pastorali”; una concezione poi fatta propria anche dalla direttiva europea “Habitat”, nell’ambito di una visione che vede l’uomo non contrapposto ai valori naturalistici, quando si esprima in attività compatibili, ma addirittura attore, protagonista e fautore di assetti ed equilibri ecosistemici di pregio.
Ad Erera-Brendol tutto ciò si tocca con mano ed anche concetti teorici e pensieri si estrinsecano in forme tangibili e concrete.
È sufficiente il riscontro della ricchezza floristica che permane nel tempo, talora davvero eccezionale, dell’estrema varietà faunistica, della presenza di emergenze botaniche e faunistiche di assoluto pregio, di un paesaggio armonico dove l’azione sinergica degli erbivori domestici e ungulati selvatici frena l’avanzata di alberi e arbusti, genera e mantiene corridoi erbacei nella mugheta, ricama i margini della vasta piana.
E che dire delle pozze d’abbeverata, frutto dell’ingegno e della perizia della cultura rurale e dei suoi protagonisti, che in aree carsiche come queste sostengono ricche comunità di Anfibi, altrimenti impensabili in terre dove l’acqua che cade dal cielo o che si scioglie dai nevai si perde subito in inghiottitoi, doline, campi carreggiati, ghiaioni.
Per non parlare degli edifici rurali, il cui valore storico-culturale, storico-ambientale e in qualche caso anche architettonico è ormai conclamato e riconosciuto a tutti i livelli.
Visitare una malga del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi d’estate è un’esperienza che, ancorché faticosa e da conquistare lungo ripide e disagevoli salite (come quelle percorse dalla vacche durante la monticazione, ripresa nella foto), muove nel profondo le sensibilità di ciascuno e, davvero, si torna a valle più ricchi e consapevoli del valore che hanno questi luoghi, risparmiati dai voraci appetiti del turismo mordi e fuggi e da una visione oleografica dell’alpeggio, che qui invece si esprime nella sua forma più autentica e vera. Tutti aspetti questi che possono continuare a vivere, o meglio a convivere, con la presenza dei lupi.
Testo di Michele Cassol Dott. Forestale